LA  SAPIENZA TRADIZIONALE

SIRACIDE

Lezione 31.a

LA GRANDE COLLEZIONE DI RIFLESSIONI NEL LIBRO DEL SiRACIDE

Il libro del Siracide è chiamato nella Volgata (= la Bibbia latina) Ecclesiastico, per la frequente utilizzazione catechetica ed etica da parte della comunità cristiana. È un deuterocanonico, perché ci è giunto in greco; però l’autore nel prologo parla di versione da un originale ebraico, ma si pensava che fosse una finzione letteraria; e invece dalla fine del secolo XIX e nel secolo XX (si veda nell’introduzione nella BJ le tre date significative dei ritrovamenti) sono venuti alla luce quasi 2/3 dell’originale ebraico; secondo questo testo, il nome completo dell’autore (vissuto nel II secolo a.C.) sarebbe «Simeone, figlio di Gesù, figlio di Eleazaro, figlio di Sira»; in greco il libro si chiamava «Sapienza di Gesù, figlio di Sira»; da qui l’appellativo usato di «Ben Sira» o «Siracide» (dalla forma greca Sirach, che – tra l’altro – è uno sbaglio del copista).

Il prologo del nipote traduttore è significativo a proposito del lavoro di traduzione; inoltre ci dà la data: il 38° anno di Evergete re d’Egitto, che corrisponde al 132 a.C.; quindi si può fissare la data di composizione tra il 190 e il 180 a.C.

Il libro crea tante difficoltà agli studiosi;  l’ebraico e il greco non coincidono, perché il testo greco ci è giunto elaborato, e poi c’è l’elaborazione del nipote traduttore (nelle note della BJ in genere vengono notate le differenze). Anche nella lettura troviamo difficoltà per la diversa numerazione dei versetti.

Questo libro si può considerare il punto d’arrivo del giudaismo con tutta la sua teologia e la sua tarda sapienza. Ben Sira si presenta come uno scriba, come un maestro di scuola (50,27-29); è uno che ha viaggiato (51,13), quindi ha un’esperienza molteplice anche fuori del suo ambiente; è un intellettuale e se ne sente orgoglioso (appare anche un certo disprezzo per gli illetterati).

Il Siracide è stato definito un «conservatore illuminato»; vi è riflessa la sapienza tradizionale, con una certa cura per l’aggiornamento alle nuove istanze culturali e sociali; è un giudeo puro, ma aperto al mondo greco.

Possiamo dare qualche esempio di tale contatto con la cultura ellenistica:

– equilibrio nel dolore (38,16-23);

– moderazione, dominio di sé, educazione, buone maniere (vedi cap. 37 sulla temperanza nei cibi);

– superamento quasi del binomio delitto-castigo, perché l’autore accoglie il ricorso alla medicina (si ricordi il progresso di questa nel mondo greco); e qui troviamo uno dei pochissimi testi biblici in favore dei medici (38,1-14; a parte il v. 15, che però non ha il significato che ci viene spontaneamente (!) e forse va tradotto secondo l’ebraico);

– tema della libertà di scelta (15,11-17): c’è tutto il sapore di una riflessione filosofica greca.

Nel Siracide c’è di tutto; è una mini-enciclopedia, con un orizzonte ricchissimo di proverbi, riflessioni, meditazioni, osservazioni sapienziali, su tutti gli argomenti: galateo, giustizia, salute, pigrizia, stupidità, collera, abilità politica, amicizia (6,5-17; 37, 1-6; si veda il famoso proverbio, diventato universale, in 6,14), commercio (si legga il velenoso – ma contiene certamente un fondo di verità! – proverbio di 26,20), donne (frecciate terribili in 25,12-26 + 42,14; ma anche la celebrazione della donna ideale in 26,1-13). Fondamentalmente è un sapiente moralista. C’è qualche volta un filo pessimistico, perché egli nota che la realtà ha degli imprevisti che non si possono spiegare. Specialmente il tema della morte è descritto in modo cupo: cf. 7,36; 17,27; 14,17-18.

Riconosciamo nel testo quattro inni: nel cap. 1 e nel cap. 24 l’elogio della Sapienza; in 42,15-43,33 l’esaltazione del Signore creatore attraverso un arazzo di meraviglie cosmiche; in 51,1-12 un inno di ringraziamento come epilogo all’opera.

È da notare un’altra particolarità. Mentre nei libri sapienziali in genere non compare più la storia della salvezza di Israele con il tema fondamentale dell’alleanza, Ben Sira ripensa invece alla storia sacra con una riflessione molto bella sulle grandi figure dell’AT da Enoch fino a Neemia (44,1-49,16) che si conclude con un elogio finale (50,1-21) di Simone II, il sommo sacerdote contemporaneo dell’autore (220-195 a.C.), descritto nella cornice esaltante della liturgia del secondo tempio. In questa galleria viene evidenziata soprattutto l’importanza del sacerdozio (si guardi il lungo ritratto – il più lungo di tutti – di Aronne); ciò si spiega con il fatto che nel post-esilio, finita la dinastia regale e finito il profetismo, unico punto di riferimento rimaneva il sacerdozio.

Capitolo centrale del libro e testo importantissimo è l’inno in 24,1-21 (che leggiamo anche nella liturgia), in cui l’insegnamento della Sapienza è presentato nel suo insieme, con numerose reminiscenze di testi biblici precedenti. La Sapienza è la Parola di Dio, la sua volontà: entra in scena su un trono divino; poi viene mandata sulla terra a Dio e prende dimora nella tenda di Giacobbe, all’interno di un «popolo glorioso», in un terra descritta con immagini paradisiache: vengono elencati 14 alberi esotici (testo stupendo!). La Sapienza è cibo che alimenta, è acqua che disseta, è luce; e tutto ciò viene identificato con la Torah, la legge ricevuta da Mosè (24,22). L’uomo deve rispondere  con l’osservanza dei precetti del Signore.

Si resta colpiti (più ancora che nei Proverbi) da certe espressioni che annunziano una teologia della Trinità: la Sapienza è nello stesso tempo unita intimamente a Dio e distinta da lui; così si prepara la riflessione teologica cristiana sulla persona del Verbo e dello Spirito Santo. Sembra che questo passo abbia ispirato in modo particolare il prologo di Giovanni, che riferisce al Logos molte attività e caratteristiche della Sapienza.  

Don Lorenzo Sena


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