LA GRANDE COLLEZIONE DI RIFLESSIONI NEL LIBRO DEL SiRACIDE
Il libro del Siracide è chiamato nella Volgata (= la Bibbia latina) Ecclesiastico, per la frequente utilizzazione catechetica ed etica da parte della comunità cristiana. È un deuterocanonico, perché ci è giunto in greco; però l’autore nel prologo parla di versione da un originale ebraico, ma si pensava che fosse una finzione letteraria; e invece dalla fine del secolo XIX e nel secolo XX (si veda nell’introduzione nella BJ le tre date significative dei ritrovamenti) sono venuti alla luce quasi 2/3 dell’originale ebraico; secondo questo testo, il nome completo dell’autore (vissuto nel II secolo a.C.) sarebbe «Simeone, figlio di Gesù, figlio di Eleazaro, figlio di Sira»; in greco il libro si chiamava «Sapienza di Gesù, figlio di Sira»; da qui l’appellativo usato di «Ben Sira» o «Siracide» (dalla forma greca Sirach, che – tra l’altro – è uno sbaglio del copista).
Il prologo del nipote traduttore è significativo a proposito del lavoro di traduzione; inoltre ci dà la data: il 38° anno di Evergete re d’Egitto, che corrisponde al 132 a.C.; quindi si può fissare la data di composizione tra il 190 e il 180 a.C.
Il libro crea tante difficoltà agli studiosi; l’ebraico e il greco non coincidono, perché il testo greco ci è giunto elaborato, e poi c’è l’elaborazione del nipote traduttore (nelle note della BJ in genere vengono notate le differenze). Anche nella lettura troviamo difficoltà per la diversa numerazione dei versetti.
Questo libro si può considerare il punto d’arrivo del giudaismo con tutta la sua teologia e la sua tarda sapienza. Ben Sira si presenta come uno scriba, come un maestro di scuola (50,27-29); è uno che ha viaggiato (51,13), quindi ha un’esperienza molteplice anche fuori del suo ambiente; è un intellettuale e se ne sente orgoglioso (appare anche un certo disprezzo per gli illetterati).
Il Siracide è stato definito un «conservatore illuminato»; vi è riflessa la sapienza tradizionale, con una certa cura per l’aggiornamento alle nuove istanze culturali e sociali; è un giudeo puro, ma aperto al mondo greco.
Possiamo dare qualche esempio di tale contatto con la cultura ellenistica:
– equilibrio nel dolore (38,16-23);
– moderazione, dominio di sé, educazione, buone maniere (vedi cap. 37 sulla temperanza nei cibi);
– superamento quasi del binomio delitto-castigo, perché l’autore accoglie il ricorso alla medicina (si ricordi il progresso di questa nel mondo greco); e qui troviamo uno dei pochissimi testi biblici in favore dei medici (38,1-14; a parte il v. 15, che però non ha il significato che ci viene spontaneamente (!) e forse va tradotto secondo l’ebraico);
– tema della libertà di scelta (15,11-17): c’è tutto il sapore di una riflessione filosofica greca.
Nel Siracide c’è di tutto; è una mini-enciclopedia, con un orizzonte ricchissimo di proverbi, riflessioni, meditazioni, osservazioni sapienziali, su tutti gli argomenti: galateo, giustizia, salute, pigrizia, stupidità, collera, abilità politica, amicizia (6,5-17; 37, 1-6; si veda il famoso proverbio, diventato universale, in 6,14), commercio (si legga il velenoso – ma contiene certamente un fondo di verità! – proverbio di 26,20), donne (frecciate terribili in 25,12-26 + 42,14; ma anche la celebrazione della donna ideale in 26,1-13). Fondamentalmente è un sapiente moralista. C’è qualche volta un filo pessimistico, perché egli nota che la realtà ha degli imprevisti che non si possono spiegare. Specialmente il tema della morte è descritto in modo cupo: cf. 7,36; 17,27; 14,17-18.
Riconosciamo nel testo quattro inni: nel cap. 1 e nel cap. 24 l’elogio della Sapienza; in 42,15-43,33 l’esaltazione del Signore creatore attraverso un arazzo di meraviglie cosmiche; in 51,1-12 un inno di ringraziamento come epilogo all’opera.
È da notare un’altra particolarità. Mentre nei libri sapienziali in genere non compare più la storia della salvezza di Israele con il tema fondamentale dell’alleanza, Ben Sira ripensa invece alla storia sacra con una riflessione molto bella sulle grandi figure dell’AT da Enoch fino a Neemia (44,1-49,16) che si conclude con un elogio finale (50,1-21) di Simone II, il sommo sacerdote contemporaneo dell’autore (220-195 a.C.), descritto nella cornice esaltante della liturgia del secondo tempio. In questa galleria viene evidenziata soprattutto l’importanza del sacerdozio (si guardi il lungo ritratto – il più lungo di tutti – di Aronne); ciò si spiega con il fatto che nel post-esilio, finita la dinastia regale e finito il profetismo, unico punto di riferimento rimaneva il sacerdozio.
Capitolo centrale del libro e testo importantissimo è l’inno in 24,1-21 (che leggiamo anche nella liturgia), in cui l’insegnamento della Sapienza è presentato nel suo insieme, con numerose reminiscenze di testi biblici precedenti. La Sapienza è la Parola di Dio, la sua volontà: entra in scena su un trono divino; poi viene mandata sulla terra a Dio e prende dimora nella tenda di Giacobbe, all’interno di un «popolo glorioso», in un terra descritta con immagini paradisiache: vengono elencati 14 alberi esotici (testo stupendo!). La Sapienza è cibo che alimenta, è acqua che disseta, è luce; e tutto ciò viene identificato con la Torah, la legge ricevuta da Mosè (24,22). L’uomo deve rispondere con l’osservanza dei precetti del Signore.
Si resta colpiti (più ancora che nei Proverbi) da certe espressioni che annunziano una teologia della Trinità: la Sapienza è nello stesso tempo unita intimamente a Dio e distinta da lui; così si prepara la riflessione teologica cristiana sulla persona del Verbo e dello Spirito Santo. Sembra che questo passo abbia ispirato in modo particolare il prologo di Giovanni, che riferisce al Logos molte attività e caratteristiche della Sapienza.
Don Lorenzo Sena
PROVERBI
Lezione 30.a
Dopo aver tracciato le linee della letteratura sapienziale, diamo uno sguardo – per quanto veloce – ai singoli libri. Nella Bibbia cattolica – come già detto – sono considerati libri sapienziali (e disposti nell’ordine come segue): Giobbe, Salmi, Proverbi, Qohèlet, Cantico dei Cantici, Sapienza, Siracide. Il «pentateuco sapienziale» è costituito da: Giobbe, Proverbi, Qohèlet, Sapienza, Siracide; poi si arriva a un settenario aggiungendo il Cantico dei Cantici e il libro dei Salmi, che meritano un discorso a parte.
Iniziamo con la «sapienza tradizionale»: il libro dei Proverbi e il libro del Siracide ( 1 ).
LA VITA QUOTIDIANA NEL LIBRO DEI PROVERBI
Il libro dei Proverbi è una raccolta di collezioni diverse per cronologia e qualità. Ecco una mappa delle varie serie:
I. Capp. 1-9: è la collezione più recente e sofisticata, in cui si trovano anche dei piccoli poemi. Il testo rivela spesso punti di contatto con Geremia e il Deutero-Isaia, per cui si può supporre una redazione finale post-esilica tra il 550 e 450 a.C.
II. Capp. 10-22: collezione di Salomone (riconducibile appunto alla sua epoca, del secolo X a.C.);
III. Capp. 22,17-24,22: è un allegato alla collezione di Salomone e rivela contatti espliciti con la sapienza egiziana di Amen-em-ope (XXII dinastia: 945-745 a.C.);
IV. Capp. 24,23-34: nuovo allegato alla collezione di Salomone, steso in lingua arcaica e con paralleli extrabiblici;
V. Capp. 25-29: collezione di Ezechia (il re del profeta Isaia, sec. VIII a.C., ma la redazione è fatta con materiali più antichi; in La Bibbia di Gerusalemme è intitolata «Seconda raccolta salomonica);
VI-IX. Capp. 30-31: sono quattro sezioni più recenti delle precedenti, ma di difficile datazione; la parte più antica è costituita dai «proverbi numerici» di 30,15-33);
La più probabile ricostruzione storica darebbe il seguente ordine cronologico: II – V – III – IV – VI-IX – I.
La serie dei Proverbi è costruita su coppie-tipo di personaggi morali: giusto-empio; sapiente-stolto; diligente-pigro; ciò che Dio ama-ciò che Dio detesta. Spesso si tratta di gustosi bozzetti di vita quotidiana (potremmo immaginare di mettere una macchina da presa nella piazza del mercato che ruota tutt’intorno per un’intera giornata), che raccolgono veramente il brusìo delle strade, le voci dell’uomo e della donna, il fluire delle stagioni, le azioni semplici, i sentimenti, le piccole cose nel bene e nel male che popolano la nostra vita. Perciò, come in tutti i proverbi popolari, c’è una tonalità di ironia, a volte benevola a volte un po’ cattiva, che giunge spesso al sarcasmo e alla faziosità, ma che ha comunque un fondo di verità.
Le relazioni che l’uomo intesse e con Dio e col suo simile (soprattutto la donna) e col mondo materiale sono oggetto di uno studio appassionato da parte del saggio alla ricerca della presenza della sapienza divina; mettendo da parte la grande storia con i suoi eventi solenni (esodo, battaglie, re, profeti, ecc…), la sapienza cerca nell’esistenza quotidiana le manifestazioni di Dio. Ed è questo il valore teologico della categoria «sapienza».
Caratteristica è la tipizzazione negativa della donna (come in tutte le letterature). Però dobbiamo ricordare che la condanna della donna stupida diventa di fatto la condanna della stupidità, come del resto le lodi della donna saggia diventano le lodi della Sapienza. Si tratta cioè, di personificazioni: è la Donna-Sapienza e la Donna-Stoltezza. Non si può negare comunque che il peso negativo è certamente superiore; le motivazioni vanno cercate nella paura della donna e soprattutto nel mistero della donna (si tratta di una visione antropologica antica); c’è di fatto in tutta la Bibbia una misoginia popolare sedimentata, che esprime un preciso ambito culturale (che in qualche modo dura ancora oggi). Ancora una volta dobbiamo ricordare la incarnazione della Parola di Dio nella povertà della condizione umana; per questo – ammoniamo ancora – non vanno mai lette queste pagine in modo fondamentalista. Facciamo tre esempi diversi:
– Pr 9,1-6 e 13-16: è un testo intermedio; c’è l’attenzione alla dimensione positiva e a quella negativa: c’è la donna-Sapienza e la donna-Stupidità.
– Pr cap. 7: descrizione della donna «fatale» (nel senso che porta alla rovina). È un quadretto che descrive con grande arte una scena di adescamento da parte di una donna verso un giovane che il saggio qualifica come «inesperto, dissennato, incauto»; e allora ecco l’ammonimento finale: «Ora, figlio mio, ascoltami, fa’ attenzione alle parole della mia bocca. Il tuo cuore non si volga verso le sue vie, non aggirarti per i suoi sentieri, perché molti ne ha fatti cadere trafitti ed erano vigorose tutte le sue vittime. La sua casa è la strada per gli inferi, che scende nelle camere della morte» (7,24-27).
– Pr 31,10-31: un testo positivo, poeticamente molto bello nel testo originale: è un inno acrostico alfabetico (con 22 vv., uno per ogni lettera dell’alfabeto ebraico). È l’elogio della donna «perfetta» (dice la traduzione), ma nel testo si allude alle mani, cioè è l’elogio della donna massaia, la compagna che il maestro propone al discepolo che vuole sposarsi. Questa donna è prima di tutto la Sapienza, ma anche la moglie ideale.
E, a proposito della donna e del rapporto con l’uomo, troviamo un proverbio sorprendente in 30,18-19: «Tre cose mi sono difficili, / anzi quattro, che io non comprendo: / il sentiero dell’aquila nell’aria, / il sentiero del serpente sulla roccia, / il sentiero della nave in alto mare, / il sentiero dell’uomo in una giovane». Qui si intende l’unione coniugale e la procreazione: abbiamo la celebrazione del mistero («io non comprendo») dell’amore, anche sessuale, che ha come sbocco la vita.
Una parola particolare merita l’inno di Pr 8,22-31, in cui la Sapienza personificata celebra se stessa. Emergono chiaramente i due volti della Sapienza, quello trascendente come progetto della mente di Dio («prima… prima… prima» dei vv. 22-25) e quello incarnato nel cosmo («quando… quando… quando…» dei vv. 26-31). [Si veda su questi vv. la lunga nota in BJ].
Don Lorenzo Sena
_________________________________________
( 1 ) Per questi appunti cf. G. CAPPELLETTO-M. MILANI, In ascolto dei profeti e dei sapienti. Introduzione all’Antico Testamento. II, Ed Messaggero, Padova 1982 (Strumenti di Scienze Religiose), pp. 156-182 e 207-216; G. RAVASI, Introduzione all’Antico Testamento, Piemme, Casale Monferrato 1991 (Manuali di base Piemme 2), pp. 135-140; G. RAVASI, Lettura della Bibbia. Proverbi e Siracide. (Cinque conversazioni al Centro Culturale S. Fedele di Milano, 1989), EDB, Bologna 1989.
«IL TIMORE DEL SIGNORE È IL PRINCIPIO DELLA SAPIENZA»
Lezione 29.a
Sono chiamati «libri sapienziali» cinque scritti dell’AT: Giobbe, Proverbi, Qohèlet (o Ecclesiaste), Siracide (o Ecclesiastico), Sapienza; ad essi si usano collegare anche i Salmi e il Cantico dei Cantici (che hanno però caratteristiche specifiche e una propria autonomia).
Trattiamo dunque di questi sette libri dell’AT che nella Bibbia cattolica sono disposti subito dopo i libri storici e prima dei Profeti, in questo ordine: Giobbe – Salmi – Proverbi – Qohèlet – Cantico dei Cantici – Sapienza – Siracide (gli ultimi due sono «deuterocanonici», cioè non accettati come ispirati dagli Ebrei, in quanto giunti a noi in greco).
Vediamo prima l’orizzonte sapienziale ( 1 ) in genere, cioè il profilo letterario e ideologico di questa hokmah [= sapienza], con una sua visione del mondo che appare già in Salomone nel X secolo a.C. e accompagna in pratica tutta la storia d’Israele fino alle soglie dell’era cristiana (si pensi che il libro della Sapienza è del I secolo, forse addirittura del 30 a.C.!).
LA LETTERATURA «SAPIENZIALE»
La letteratura «sapienziale» è stata ricchissima di espressioni in tutto l’Oriente antico. Culla di tutto il genere letterario sapienziale si può considerare l’Egitto che ha prodotto lungo tutta la sua storia una quindicina di «sapienze»; ma anche altrove questa nuova disciplina è fiorita con prodotti di alto livello, soprattutto in Mesopotamia in cui, a partire dall’epoca dei Sumeri, sono attestate composizioni di proverbi, favole, poemi sulla sofferenza (sul tipo del libro di Giobbe). La sapienza mesopotamica penetrò anche in terra di Canaan (dove sono stati trovati testi sapienziali scritti in accadico). Da ambienti di lingua aramaica proviene l’antica opera detta La Sapienza di Achikar (a cui si allude anche nel libro di Tobia), che è di origine assira ma è stata poi tradotta in numerose lingue dell’antichità. Si tratta dunque di una «sapienza» internazionale.
Essa non ha una particolare preoccupazione religiosa, ma si esplica piuttosto nel settore profano; cerca di spiegare il destino degli individui non attraverso una riflessione filosofica di tipo greco, ma traendo argomento dall’esperienza. Si tratta cioè dell’arte del ben vivere, che vuole insegnare all’uomo a conformarsi all’ordine cosmico e dargli il mezzo per essere felice e avere successo.
Israele ha conosciuto questo genere sapienziale e le prime opere di questo tenore in Israele presentano strette somiglianze con opere analoghe dei popoli vicini, perché provengono dai medesimi territori. Così le parti più antiche del libro dei Proverbi non danno altre indicazioni che precetti di sapienza umana. I libri sapienziali dell’AT (se si eccettuano i più recenti, cioè Siracide e Sapienza) non affrontano neppure i grandi temi dell’AT: la legge, l’alleanza, la salvezza; i saggi di Israele non si preoccupano della storia e del futuro del loro popolo, la loro riflessione si sofferma sul destino individuale (come gli altri sapienti dell’Oriente).
Ma il loro sguardo è illuminato da una luce superiore: quella della fede jahvista. Al di là dell’origine comune e delle numerose somiglianze, questo riferimento essenziale determina una fondamentale differenza che va sempre più accentuandosi con il progredire della rivelazione. Cosicché l’opposizione sapienza-stoltezza diventa l’opposizione giustizia-iniquità e pietà-empietà. La vera sapienza è in realtà il timor di Dio (Pr 1,7; 9,10; Sal 111,10; Gb 28,28; Sir 1,14).
La sistematizzazione di questo pensiero e di questa cultura conduce a due linee.
Una, più ortodossa e conservatrice, si accontenta di rilevare i dati dell’esperienza senza far notare le evidenti contraddizioni e sfocia in una proposta utilitaristica, permeata di perbenismo e buonsenso. C’è una visione ottimistica di fondo, con il celebre dogma della retribuzione, testimoniato dai Proverbi e dagli amici di Giobbe: il binomio peccato-castigo da un lato e giustizia-premio dall’altro sono realtà verificabili nella storia: è Dio stesso che ricompensa in tal modo i buoni e punisce i malvagi. L’insegnamento sapienziale di tale visione è quello di un Dio sapiente e giusto che governa il mondo.
Ma accanto a questo blocco idilliaco prende consistenza un’altra visione più realistica e più «contestatrice» ed «eterodossa» che fa esplodere le contraddizioni del reale, ribellandosi a una lettura semplificata dell’esperienza che ignora le contraddizioni, il grido del povero e dell’innocente sofferente. Questi attacchi radicali mettono in crisi il modello retribuzionistico e portano a una «nuova sapienza» documentata in tutto l’Oriente; ad es. in Egitto il «Dialogo di un suicida con il suo ba [= anima]»; e nella Bibbia da Giobbe e Qohèlet.
Quindi possiamo parlare di tonalità antitetiche della «sapienza»:
– è insieme ottimista e pessimista. Contempla l’armonia del creato e ne loda Dio; ma contemporaneamente sente la drammaticità della vita.
– ha una duplice visione del mondo. La realtà viene vista «dall’alto» e «dal basso»: vista dall’alto è conoscenza delle cose ultime, elaborazione di sistemi di pensiero; vista dal basso è considerazione pratica ed elementare di luoghi comuni. Quindi accanto a pagine nobilissime e molto alte, troviamo pagine quasi banali, anche battute quasi «da osteria» (vedi le frecciate contro le donne, che troviamo numerose nei libri sapienziali; è risaputo di un certo misoginismo biblico).
– è aristocratica e popolare. È nata come istruzione per le classi alte, per insegnare l’arte del governare; ma è anche popolare; il filone aristocratico è aperto e progressista, quello popolare è conservatore.
Considerando i dati sapienziali che incontriamo nei vari libri biblici, possiamo dire che la teologia sapienziale è un tentativo coraggioso di formulare un nuovo linguaggio teologico e di filtrare il messaggio ebraico alla luce di una nuova esperienza e di una nuova ideologia. Questo avviene per tappe, attraverso un lungo cammino, all’inizio del quale si trova Salomone, il quale venne esaltato come il massimo saggio di Israele: a lui vennero attribuite le due più antiche e più importanti raccolte dei Proverbi (capp. 10-22 e 25-29), il che spiega anche il titolo dato a tutto il libro (1,1); allo stesso modo, vennero attribuiti a lui il Qohèlet, la Sapienza e il Cantico.
ACCENNIAMO ORA AI GENERI LETTERARI, CIOÈ ALLE FORME ESPRESSIVE DELLA SAPIENZA
– Mashal. È la più semplice e la più antica forma della letteratura sapienziale, comune a tutte le culture. Equivale a proverbio, ma può avere varie accezioni (detto, aforisma, parabola, carme, allegoria). Si tratta di schegge di riflessioni e intuizioni legate a formule lapidarie, spesso assonanti e ritmate, desunte dall’esperienza concreta e assolutizzate. Nel linguaggio biblico il proverbio è costituito sulla base del parallelismo, o sinonimo (es. Pr 4,24: «Tieni lungi da te la bocca perversa / e allontana da te le labbra fallaci») o antitetico (es. Pr 12,5: «I pensieri dei giusti sono equità / i propositi degli empi sono frode»). Ricordiamo poi i proverbi comparativi (es. Pr 27,10: «Meglio un amico vicino che un fratello lontano»; oppure Pr 21,9 e 25,24: «È meglio abitare su un angolo del tetto / che avere una moglie litigiosa e casa in comune»). Talvolta si accostano esperienze contrapposte, presentando intenzionalmente una contraddizione per far capire la complessità della realtà (es. Pr 26,4-5: «Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza / per non divenire anche tu simile a lui. [e subito dopo] / Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza / perché egli non si creda saggio»). In tale linea vanno anche le domande, tese a provocare l’intelligenza e la riflessione (es. Pr 20,9: «Chi può dire: Ho purificato il cuore, / sono mondo dal mio peccato?»). Ricordiamo infine i proverbi numerici, che forse sono la risposta a un indovinello in forma di domanda (così in Pr 30,15-33; es. vv. 15-16: «Tre cose non si saziano mai, / anzi quattro non dicono mai: “Basta!”: / gli inferi, il grembo sterile, / la terra mai sazia d’acqua / e il fuoco che mai dice: “Basta!”»).
– Oltre al mashal altri generi sono adoperati nei libri sapienziali (come in tutta la Bibbia): l’enigma che simultaneamente informa e nasconde mediante un messaggio cifrato (es. l’indovinello di Sansone ai suoi avversari in Gdc 14,20); l’allegoria (es. Pr 5,15-23 sulla fedeltà coniugale); le comparazioni, le metafore, tra le quali è da porre anche la parabola (pensiamo a quella di Natan a Davide in 2 Sam 12,1-12 e alle parabole del vangelo); poi i dialoghi-dispute (come in Giobbe), i discorsi (pensiamo a quelli della sapienza personificata in Pr 1,22-32; 8; 9,1-6; Sir 24), i racconti didattici (ad esempio, tutta la storia di Giuseppe in Gen 37-50).
Un altro aspetto molto importante per noi cristiani. L’ammaestramento sapienziale, dispensato a poco a poco al popolo ebraico, preparava la rivelazione della sapienza incarnata. Nel grande prologo premesso al libro dei Proverbi (capp. 1-9) la sapienza divina parla come una persona: essa è presente in Dio dall’eternità e opera insieme a lui nella creazione (cf. soprattutto Pr 8,22-31); in Gb 28 è presentata come distinta da Dio che solo conosce dove essa si nasconde; in Sir 24 la stessa sapienza si auto-presenta come uscita dalla bocca dell’Altissimo dimorante nei cieli e inviata da Dio in Israele; in Sap 7,22-8,1 è presentata come effusione della gloria dell’Onnipotente, immagine del suo splendore. Così, la Sapienza come attributo di Dio si separa da lui diventando una persona; tutte queste espressioni dell’AT non sono soltanto una personificazione letteraria, ma sottendono un margine di mistero e preparano la rivelazione delle Persone divine.
( 1 ) Per questi appunti cf. G. CAPPELLETTO-M. MILANI, In ascolto dei profeti e dei sapienti. Introduzione all’Antico Testamento. II, Ed. Messaggero, Padova 1982 (Strumenti di Scienze Religiose), pp. 139-155; G. RAVASI, Introduzione all’Antico Testamento, Piemme, Casale Monferrato 1991 (Manuali di base Piemme 2), pp. 131-134.
Lezione 28.ma
Dedichiamo un approfondimento ai due primi profeti scrittori, Amos e Osea ( 1 ), che hanno svolto la loro missione negli ultimi anni di indipendenza del regno del Nord, tra il 760 e il 725 a.C., in un periodo di pace e prosperità il primo, di disfacimento politico e religioso il secondo. Entrambi non si fermano a guardare la realtà nel suo aspetto esteriore e appariscente, ma ne fanno una lettura «profetica», vi penetrano dentro, per cogliervi tutte le inconsistenze e le debolezze. Così mentre Amos denuncia una società che per rimanere nel benessere deve vivere nell’ingiustizia continua (vedi attualità!), Osea accusa i suoi contemporanei di non aver mai fatto esperienza autentica di Dio. Duro il primo, tenero il secondo, sembrano due facce di una stessa medaglia: l’ingiustizia prospera là dove manca un serio incontro con Dio; si sfruttano gli altri perché si è estromesso Dio dall’orizzonte della propria esistenza.
AMOS, IL PROFETA DELLA GIUSTIZIA
La parola di Amos, il profeta contadino, demolisce le lussuose residenze dell’aristocrazia in cui sono accumulate violenza e rapina (3,10); la bellezza delle case, i saloni, gli splendidi divani damascati sono denunciati come vergogne quando la gente muore di fame (3,11.15). La lista delle denunce è molto concreta: il povero è venduto per un paio di sandali (2,6; 8,6), l’avidità dei ricchi è sconfinata, i santuari sono luoghi di corruzione, ecc… C’è poi un attacco sferzante alle nobildonne dell’alta società, pasciute come «vacche di Basan» (4,1-3): si sente tutta la nausea del contadino per quelle orge. Amos è un’antenna sensibile a tutte le violazioni dei diritti umani.
In questa luce il profeta propone il cosiddetto «kerygma profetico»: la religione non ha senso, se è priva di giustizia, il culto è magia se non è sostenuto da un impegno sociale di onestà; egli perciò maledice con ironia quasi blasfema i due grandi santuari del Nord, Betel e Galgala: «Io detesto, respingo le vostre feste… anche se mi offrite olocausti e oblazioni, non li gradisco. Via da me il frastuono dei tuoi canti, il suono delle tue cetre non riesco ad ascoltarlo» (5,21-23). Dopo di lui queste «tirate» saranno ripetute da Osea (6,6), da Isaia (1,5), da Michea (6,6-8), da Geremia (6,20; 7,21-23). Non si tratta di una negazione assoluta del culto, ma del ritualismo vuoto e senza coinvolgimenti nella vita; è la difesa di una fede vera contro la religiosità esteriore.
Appare così all’orizzonte «il giorno del Signore», cioè l’evento decisivo e risolutivo della storia in cui Dio interverrà per giudicare. Nelle cinque visioni finali (capp. 7-9) si usano simboli evidenti di giudizio: le cavallette, la siccità, il filo a piombo, i frutti maturi, il crollo del santuario di Betel. Eppure su questo orizzonte cupo si apre uno squarcio di speranza: la restaurazione della casata di David (9,11-15) e soprattutto un mutamento nel cuore dell’uomo: «Ecco, verranno giorni in cui – oracolo del Signore Dio – manderò fame sulla terra: non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore» (8,11).
OSEA, IL PROFETA DELL’AMORE
Anche ad una prima lettura, Osea rivela un linguaggio tipico, quello dell’amore e del tradimento. Egli parte dalla sua esperienza personale, il matrimonio con Gomer figlia di Diblaim: egli ha amato e ama ancora una donna che ha risposto al suo amore con l’infedeltà e il tradimento. Ma il riferimento è a Israele che si lascia tentare dai culti cananei con le loro sacerdotesse che assicurano, attraverso l’atto sessuale sacralizzato, la fertilità divina e che la Bibbia chiama in modo dispregiativo «prostitute» sacre o «cagne».
L’autobiografia dei capp. 1-3 è fondamentale per capire tutta la potenza di questo libro profetico. I nomi simbolici che Osea dà ai tre figli avuti da Gomer risuonano come tre atti di accusa contro l’infedeltà di Israele nei confronti dei grandi impegni dell’alleanza. Lo’-rûhamah [= Non amata] rievoca l’amore di Dio che, come dice la parola ebraica usata (rhm), è viscerale, proprio come quello di una madre che «non dimentica il suo bambino» (Is 49,15); Lo’-‘ammî [= Non popolo mio] è la negazione della formula classica dell’alleanza tra Dio e Israele: «Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Lev 26,12); il nome del primo bambino Izre’el ricorda un avvenimento lugubre, quello di un massacro operato nell’omonima città settentrionale (2 Re 10,1-11). Così la famiglia del profeta è il compendio cifrato di una lunga storia di peccati; attraverso la sua vicenda personale, Osea dà una nuova originale interpretazione (seguita poi da altri profeti: cf. Is 54; 62,1-5; Ger 2,2; Ez 16) dell’alleanza del Sinai: lì si trattava di un contratto solenne, quasi «politico»; qui il rapporto con Dio viene interpretato sulla base di un’analogia psicologica: è come se fosse la tenera relazione di due innamorati che si cercano nella gioia e nell’intimità; l’amore umano diventa il paradigma per parlare dell’amore di Dio per l’uomo e della risposta umana al Dio che è amore (secondo la splendida definizione di 1 Gv 4,8.16).
La dimostrazione incisiva di quanto detto è nello stupendo carme del cap. 2 (che bisogna leggere con calma contemplativa!). Da una scena di oscurità (vv. 4-15), in cui si concretizza il peccato di Israele come adulterio compiuto nei riti della fertilità, si passa a una scena di luce (vv. 16-25) in cui Israele decide di convertirsi: «Ritornerò al mio marito di prima, perché ero più felice di ora» (2,9). Al tradimento della sposa corrisponde la fedeltà del Signore che rimane in attesa accanto al focolare ormai vuoto, ma sa che un giorno i passi della donna amata nuovamente risuoneranno ed egli la ricollocherà al suo posto. Tutto allora si trasforma: il deserto arido viene visto come luogo dell’intimità e dell’amore di due innamorati che si cercano («Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore»: v. 16); il paesaggio che li circonda si trasforma in un nuovo eden; i figli del profeta, che nel loro nome portavano in sé la testimonianza della rottura dell’alleanza («Non-amata», «Non-mio-popolo», Izre’el), diventano ora i simboli della comunione con Dio, trasformandosi in «Amata», «Popolo-mio», e Izre’el nel suo significato etimologico di «seme di Dio». E il capitolo si chiude con la formula solenne dell’alleanza: «Dirò: Popolo mio ed egli mi dirà: mio Dio» (v. 26).
È un’ottima meditazione per ripensare il nostro rapporto con Dio, spesso così freddo e forse solo esteriore e ritualistico, soprattutto alla luce dell’evento Cristo (è così che noi cristiani – l’abbiamo ripetuto più volte – dobbiamo leggere la Bibbia), che ci rivela fino a che punto arriva l’amore sconfinato di Dio per l’uomo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare [= consegnare alla morte] il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
Ed è questo il grande messaggio di tutta la predicazione profetica, alla luce della completezza della Rivelazione nel mistero di Cristo morto e risorto, speranza della Chiesa e del mondo intero!
Don Lorenzo Sena
________________________________________
( 1 ) Cf. RAVASI, pp. 72-80.
Lezione 27.ma
Abbiamo trattato finora dei tre grandi profeti «maggiori», cioè Isaia, Geremia, Ezechiele; e dell’altro grande libro, che – come si è visto – occupa un posto a parte, cioè Daniele. Subito dopo Geremia nella Bibbia cattolica si trovano Lamentazioni e Baruc. Quindi abbiamo visto praticamente 6 libri biblici.
Ora dobbiamo dare uno sguardo agli altri libri profetici ( 1 ), cioè il rotolo dei cosiddetti «Dodici Profeti», chiamati minori, per distinguerli dagli altri libri dei profeti scrittori, di mole notevolmente più ampia. Ricordiamo anche che per la Bibbia ebraica questo «rotolo» costituisce un solo libro.
Si tenga presente che nel percorrere questi libri seguiamo l’ordine storico più probabile, mentre nella Bibbia sono disposti in un altro modo.
Amos (760-750 a.C. nel regno del Nord). Era pastore a Tekoa ai margini del deserto di Giuda e fu mandato da Dio a profetizzare a Israele. Egli denuncia le violenze e le ingiustizie (capp. 3-4; 6-9) e ricorda che il vero culto consiste nell’umiltà e nella giustizia (cap. 5).
Osea (750-725 a.C. nel regno del Nord). Riflettendo sulla sua esperienza matrimoniale, proclama l’amore misericordioso di Dio (capp. 2; 11; 14) nel tentativo di far ritornare a JHWH il popolo che si è prostituito ai Baalim (capp. 1-3), al benessere economico e alle potenze straniere (capp. 4-10).
[Su Amos e Osea ci fermiamo poi più diffusamente]
Michea (circa 730-680 a.C. nel regno del Sud). È contemporaneo del grande Isaia. Per la sua origine campagnola si collega ad Amos, di cui condivide l’avversione alle grandi città, il linguaggio concreto e talvolta brutale. Egli annuncia un severo castigo per coloro che calpestano la giustizia sociale e praticano l’idolatria (capp. 1-3; 6-7), ma promette anche un futuro di speranza, legato alla figura di un re scelto da Dio (capp. 4-5). In Michea si trova il testo dell’origine del Messia a Betlemme: «E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore di Israele; le sue origini sono nell’antichità, dai giorni più remoti» (Mi 5,1), citato dall’evangelista Matteo (Mt 6,2).
Sofonia (660-630 a.C. nel regno del Sud). Egli si scaglia contro le mode straniere e il culto dei falsi dei. Il suo messaggio si riassume nell’annunzio del «giorno di Jahve», una catastrofe che colpirà le nazioni e anche il regno di Giuda (capp. 1-2). Sofonia ha un concetto profondo del peccato, come offesa personale al Dio vivente; il castigo è un avvertimento (3,7) che dovrebbe ricondurre il popolo all’obbedienza e all’umiltà (2,3); la salvezza è promessa solo a un «resto» umile e modesto (3,12-13). La descrizione del «giorno di Jahve» (1,14-18) ha ispirato Gioele e da qui nel medioevo l’inizio del Dies irae (la sequenza della Messa dei Defunti, nella melodia gregoriana e poi musicata dai grandi autori – si pensi a Mozart, Verdi, Dvořák – nelle loro Messa di Requiem).
Naum (630-612 a.C. nel regno del Sud). Si apre con un salmo sulla collera di JHWH. Il soggetto principale è la rovina di Ninive descritta con una potenza di evocazione e grande altezza poetica; vi si sente fremere tutta la passione per Israele contro il popolo di Assur, nemico ereditario. Ma, attraverso questo nazionalismo violento (che non sospetta neppure lontanamente le esigenze del vangelo e nemmeno l’universalismo della salvezza della seconda parte di Isaia), si esprime un ideale di giustizia e di fede: la rovina di Ninive è un giudizio di Dio, che punisce il nemico del piano divino (1,11), l’oppressore di Israele (1,12-13) e di tutti i popoli (3,1-7).
Abacuc (612-598 a.C. nel regno del Sud). Inizia con due lamenti del profeta a cui rispondono due oracoli divini (capp. 1-2). Poi il profeta canta in un salmo il trionfo finale di Dio (cap. 3). Abacuc apporta una nota nuova nella dottrina profetica: osa domandare conto a Dio del suo governo del mondo. Sì, è vero, Giuda ha peccato; ma perché Dio che è santo sceglie i barbari caldei per far punire il suo popolo? Perché sembra sostenere il trionfo di una forza ingiusta? È il problema del male posto sul piano delle nazioni (è lo scandalo anche di molte persone oggi). Al profeta e a noi oggi va la risposta divina: per vie paradossali il Dio onnipotente prepara la vittoria finale della giustizia e «il giusto vivrà per la sua fede» (2,4): questa affermazione è la perla del libro di Abacuc, che san Paolo inserirà nella sua dottrina sulla fede (Rom 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38).
Da qui in poi si tratta di voci profetiche del post-esilio. Sono profeti, successivi ad Ezechiele, di cui hanno subito l’influsso (soprattutto per Zaccaria – anzi dei due Zaccaria – si può dire che sono della scuola del grande Ezechiele). Un’altra caratteristica di questi è lo stile «apocalittico».
Con Aggeo (520-519 a.C.) inizia l’ultimo periodo profetico, quello dopo l’esilio e si nota subito il cambiamento. Prima dell’esilio, la parola d’ordine dei profeti era stata «punizione»; durante l’esilio è diventata «consolazione»; ora è «restaurazione». Aggeo arriva nel momento decisivo per la formazione del giudaismo, la nascita della nuova comunità di Palestina; il profeta stimola gli ebrei rimpatriati alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme, presentata come condizione per la venuta di JHWH e lo stabilirsi del suo regno.
Zaccaria (520-518 a.C. per i capp. 1-8). Sotto l’unico nome di Zaccaria (significa «JHWH ricorda») ci sono giunti due libretti notevolmente diversi per stile e tempo, per cui gli studiosi preferiscono dire il Primo Zaccaria (capp. 1-8) e il Secondo Zaccaria (capp. 8-14). Il primo, contemporaneo di Aggeo, rinnova l’invito a ricostruire il tempio e annuncia l’intervento salvifico di Dio, anche mediante la presenza del sommo sacerdote Giosuè e del davidico Zorobabele; e lo fa attraverso otto visioni surreali con immagini fantasmagoriche. Ricordiamo la quarta visione che ha come protagonista il sacerdote del rimpatrio Giosuè, rivestito di nuovi abiti sacerdotali puri: è la raffigurazione del «servo germoglio» (3,8), di taglio messianico, cara alla tradizione giudaica posteriore.
La seconda parte (capp. 9-14) – che si apre d’altronde con un nuovo titolo – è tutta diversa; cambia lo stile, si passa dalla prosa alla poesia, non si parla più del tempio, l’orizzonte storico non è lo stesso; probabilmente siamo in epoca ellenistica, dopo la conquista di Alessandro Magno (ultimi decenni del secolo IV a.C.). Il fondale sembra riflettere una situazione deteriorata con una classe politica e sacerdotale corrotta, con la profezia in crisi, con eventi oscuri e lo scisma definitivo dei samaritani (11,14). Ma ecco l’orizzonte si squarcia e appare luminosa la figura di un re perfetto: «Esulta grandemente, figlia di Sion, / giubila, figlia di Gerusalemme. / Ecco, a te viene il tuo re. / Egli è giusto e vittorioso, / umile, cavalca un asino, / è sopra un puledro figlio d’asina» (9,9); il testo, già letto dagli ebrei come messianico, è diventato esplicitamente cristologico nella citazione di Mt 21,5 e Gv 12,15 per l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme. Altro testo messianico è l’annunzio misterioso del Trafitto (12,10), citato in Gv 19,37.
Malachia (tra il 520 e il 400 a.C.). Probabilmente il libretto era anonimo, perché il nome può essere simbolico e significa «messaggero di JHWH». Di fronte a una situazione religiosa ed etica molto rilassata, egli lancia la sua requisitoria contro le colpe cultuali dei sacerdoti e anche dei fedeli, contro i divorzi e i matrimoni misti; ma annuncia anche un nuova èra. Al messaggio di speranza del profeta appartengono anche i due passi del cap. 3, divenuti celebri nella tradizione cristiana: il primo (3,1-5) presenta il messaggero del Signore, «l’angelo dell’alleanza» che viene a purificare; il secondo è l’annunzio del ritorno di Elia come precursore dell’era messianica (3,24-25), trasformato nei vangeli di Matteo e Marco nella figura di Giovanni Battista (Mt 11,14; 17,10-13; Mc 9,11-13).
Abdia (circa 510 a.C.). È il più breve dei libri profetici, solo 21 versetti, contenenti un duro attacco contro gli Edomiti, tradizionali avversari di Israele (erano i discendenti di Esaù), che probabilmente ostacolavano la ricostruzione dello stato ebraico post-esilico.
Gioele (intorno al 490 a.C.). La vivace predicazione di questo profeta è strutturata in due scene. Nella prima (capp. 1-2) c’è la folgorante rappresentazione di due piaghe endemiche dell’agricoltura orientale: la siccità e l’invasione delle cavallette (nella lingua ebraica e aramaica ci sono venti vocaboli diversi per indicare le varie specie di questo animale flagello delle coltivazioni). Le torme di cavallette che coi loro sciami oscurano il cielo come nubi (2,2), che trasformano un giardino paradisiaco in un deserto (2,3) diventano il simbolo di un’invasione militare che tutto annienta col suo avanzare. Dopo la descrizione di una solenne liturgia penitenziale per ottenere la liberazione divina dal flagello, si passa alla seconda scena (capp. 3-4), ove comincia a far capolino l’atmosfera apocalittica.
Un’attenzione particolare merita l’avvio del cap. 3, citato integralmente da Pietro nel discorso di Pentecoste: «Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito» (3,12; cf. At 2,17-21). Nell’era perfetta della salvezza lo Spirito del Signore non sarà più effuso solo sui capi carismatici come Mosè, i giudici, i profeti o il re-messia (Is 11,1-2), ma su tutta la comunità, dai giovani agli anziani, dagli uomini alle donne, dai liberi agli schiavi. Ma sugli empi precipiterà la tempesta della collera divina nel «giorno di Jahveh» (che è propriamente il tema dei capp. 3-4), nella «Valle della Decisione», cioè nella valle di Giosafat, a Gerusalemme (Giosafat significa appunto «Dio giudica»).
Giona. Questo piccolo libro, che è un gioiello letterario, merita un’attenzione a parte, perché non è un vero libro profetico ma una storia esemplare (come Rut, Tobia, Giuditta, Ester); è scivolato tra i profeti forse perché aveva per protagonista il profeta Giona, vissuto nell’VIII sec. a.C. (2 Re 14,25). Il testo riflette la reazione di certi ambienti giudaici un po’ più aperti di fronte all’integralismo del post-esilio (siamo quindi nel V secolo). Infatti il vertice del racconto, punteggiato dall’ironia nei confronti di questo profeta renitente e gretto e dal gusto del fiabesco (il pesce mostruoso) è tutto nel cap. 4 che celebra la misericordia universale di Dio, il quale vuole la conversione di tutta l’umanità, compreso il tradizionale nemico d’Israele, cioè l’Assiria (incarnata nella capitale Ninive, già distrutta nel 612). Giona reagisce a questo Dio troppo «padre», troppo paziente; si irrita di fronte alla conversione dei niniviti e desidera addirittura di morire (qui Giona appare ridicolo, ma c’è un profondo insegnamento per tutti!). Il Signore allora è costretto a impartirgli una lezione attraverso i tre simboli del vento, del verme e del ricino (cap. 4). E alla fine lascia cadere (ed è la perla finale del libretto!) quell’interrogativo che si ripercuote anche sulle nostre grettezze, sulle nostre chiusure mentali e spirituali: «Tu ti dai pena per quella pianta di ricino… e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».
Siamo in una mentalità molto vicina al NT. E Giona viene ricordato più volte nel NT: in Mt 12,41 e Lc 11,29-32 Gesù porta come esempio la conversione dei Niniviti e Mt 12,40 vedrà in Giona chiuso nel ventre del mostro marino la figura della permanenza di Cristo nella tomba.
( 1 ) Per questi appunti cf. G. CAPPELLETTO-M. MILANI, In ascolto dei profeti e dei sapienti. Introduzione all’Antico Testamento. II, Ed Messaggero, Padova 1982 (Strumenti di Scienze Religiose), pp. 9-34; G. RAVASI, Introduzione all’Antico Testamento, Piemme, Casale Monferrato 1991 (Manuali di base Piemme 2), pp. 118-124.
Don Lorenzo Sena
IL LIBRO APOCALITTICO DELL’ANTICO TESTAMENTO
Lezione 26.a
LE RADICI DELL’APOCALITTICA
Nel linguaggio corrente, il termine «apocalisse» è sinonimo di cataclismi, terremoti, catastrofi ed è rimasto nel modo comune di parlare in tal senso, quando ad esempio parliamo di «scenario apocalittico», «disastro di dimensioni apocalittiche», ecc… Ma etimologicamente non è questo il senso. La parola «apocalisse» viene dal greco apokàlypsis (dal verbo apocalypto che significa «togliere il velo», «svelare», cioè «rivelare»); quindi «apocalisse» vuol dire «rivelazione».
«Apocalittica» è un termine coniato appunto sul greco, per definire una particolare letteratura biblica e apocrifa (cioè dei libri non riconosciuti ispirati), fiorita dal II sec. a.C. al II sec. d.C., che ha prodotto una vera e propria marea di testi, sia attorno all’AT (I Libri di Enoch, I Testamenti dei dodici patriarchi, l’Apocalisse di Esdra, il Libro dei Vigilanti, il Libro dei Sogni, l’Ascensione di Mosè, ecc…), sia anche attorno al NT.
Tale letteratura affondava le sue radici nel passato, specialmente nel linguaggio fantasmagorico di Ezechiele. Secondo alcuni, quindi, il genere apocalittico deriverebbe dalla profezia, quasi come un impoverimento e una degenerazione, dando origine a una cultura nuova e diversa, creando un suo linguaggio e un suo messaggio specifico. L’apocalittica ha pagine tempestate di simboli e visioni, predilige le comunicazioni angeliche e le rivelazioni misteriche, ricama su eventi storici; ha in generale un pessimismo radicale nei confronti del presente, considerato come l’epoca del male e l’impero di Satana; ne consegue che l’impegno del fedele nella storia è nullo, perché l’unica attesa e l’unica lotta è quella per il futuro regno di Dio, che nascerà dalle ceneri del mondo presente destinato ad essere annientato dal Messia: si tratta quindi di una visione dualistica che oppone presente e futuro, cielo e terra, fedeli e storia.
Diciamo subito che però il cristiano ha un’altra concezione della storia e del Regno di Dio, come realtà già ora presente e iniziata in Cristo, che però non ancora è completa e definitiva; e l’impegno nella storia prepara la venuta del Regno.
Gli «antenati» biblici dell’apocalittica, oltre a Ezechiele, a Zaccaria e a Gioele con le loro visioni esplosive e le loro scene di giudizio, sono anche in certi testi non-isaiani ma incastonati nel libro di Isaia, specialmente quelli che vengono denominati «Apocalisse maggiore» (capp. 24-27) e «Apocalisse minore» (capp. 34-35). Ricordiamo in particolare il «canto del banchetto» (Is 25,6-8) sul monte Sion, a cui sono invitati tutti gli uomini senza distinzioni, dopo che Dio li avrà liberati da tutte le miserie umane: «Eliminerà la morte per sempre…» (Is 25,8 che sarà ripresa dal NT in Apocalisse 21,4).
IL LIBRO DI DANIELE ( 1 )
La tradizione cristiana ha inserito questo libro tra i profeti, ma in realtà si tratta di un testo tipico della letteratura apocalittica. La cornice storica è fittizia e rimanda a quattro secoli prima, ai tempi di Nabucodonosor e dei suoi successori; anzi lo scenario abbraccia tre imperi (quello babilonese, quello medo e quello persiano): Daniele inizia la sua vita pubblica sotto Nabucodonosor (1,1) e la conclude sotto Ciro il Grande (1,21).
La redazione finale del libro risale al periodo maccabaico (sec. II a.C.) e intende presentarsi come un libro di consolazione nel momento drammatico e travagliato della politica ellenizzante con la conseguente persecuzione, di Antioco IV Epifane (175-164 a.C.). L’interesse principale del libro è anzitutto l’esito della vicenda politico-religiosa di questo re, tanto da leggere la sua fine sullo sfondo dell’escatologia finale.
Il protagonista è un ebreo-tipo esule a Babilonia che porta un nome ideale, Daniele Dio giudica); attorno a lui si raccolgono gli amici fedeli, di una fede a tutta prova nel Dio di Israele; contro di essi invano reagiscono i vari sovrani. L’intento dell’autore è di affermare che, pur nel soffocamento dei valori religiosi tradizionali, Dio non abbandona i suoi fedeli: «Alla fine dei tempi, quando giungerà quel termine che Dio ha stabilito e comparirà il Figlio dell’uomo, tutti i regni umani fondati sulla sopraffazione e sul sopruso cadranno dinanzi all’instaurazione di un regno che non avrà mai fine, e questa sarà la risposta di Dio alla fedeltà e alla perseveranza di coloro che lo avranno amato e gli saranno rimasti fedeli nonostante il tempo della sofferenza e della prova» ( 2 ).
Il libro di Daniele è scritto in tre lingue: in ebraico nei capp. 1 e 8-12; in aramaico, la lingua dominante nel post-esilio, in 2,4-7,28; in greco (le parti deuterocanoniche) in 3,24-90 e nei capp. 13-14. Queste ultime sono giunte a noi grazie alle versioni greche: quella della LXX (ma un solo manoscritto e molto corrotto) e soprattutto quella di Teodozione (oggi comunemente seguita; la Bibbia di Gerusalemme riporta in nota le varianti della LXX). I vv. 24-90 del cap. 3 vengono inseriti dopo il v. 23 dell’aramaico e riportano un salmo penitenziale e un lungo canto di lode dei tre giovani tra le fiamme.
La prima sezione (capp. 1-7) contiene i celebri racconti dei sogni di Nabucodonosor interpretati da Daniele (capp. 2 e 4), della statua d’oro imperiale da adorare e la fornace di fuoco per i giudei ribelli (cap. 3), del banchetto di Baldassar e la scritta misteriosa (cap. 5), di Daniele nella fossa dei leoni (cap. 6). Richiamiamo in particolare la bella supplica di Azaria nella fornace (3,24-45) e il cantico dei tre giovani (3,51-90), preghiere che vengono utilizzate nella liturgia cristiana.
La seconda sezione (capp. 8-12) è dominata dalle visioni (sono passi per noi difficili, specialmente la visione suprema molto complessa dei capp. 10-12): si vogliono indicare i regni di Media e di Persia, Alessandro Magno (il «capro» del cap. e vogliono essere una vera e propria rilettura apocalittica dell’epoca vissuta dall’autore, aperta alla risurrezione dei giusti (12,1-4). Si tratta di tre visioni:
1) la visione del montone e del capro, cioè la vicenda politica di Antioco IV e la sua fine (cap. 8);
2) la visione dell’angelo Gabriele che annuncia il futuro di Gerusalemme, interpretando un oracolo di Geremia che riguardava la durata dell’esilio babilonese (cap. 9: la profezia delle settanta settimane). Si noti la bella confessione-supplica, come spesso nel periodo post-esilico (vedi la preghiera di Azaria nel cap. 3; Baruc capp.1-3);
3) la visione dell’uomo vestito di lino che preannunzia le lotte tra Seleucidi e Tolomei, l’ascesa al potere di un uomo spregevole (Antioco IV Epifane) e la sua caduta e poi il tempo della fine con la risurrezione e l’ultimo giudizio (capp. 10-12).
Nell’appendice greca (capp. 13-14), indimenticabile rimane la storia di Susanna, un gioiello narrativo centrato sulla figura del giusto perseguitato (cap. 13): nelle catacombe e nella liturgia cristiana il brano diverrà una lettura preparatoria alla passione e alla glorificazione del Cristo, martire innocente. Le altre due narrazioni del cap. 14 trattano uno stesso tema: la polemica contro l’idolatria. Daniele smaschera l’inganno di Bel (14,1-22) e uccide il drago venerato dai babilonesi (14,23-42).
Dalle caratteristiche letterarie e linguistiche del libro si deduce anche la sua complessità; si osserva, ad esempio, la presentazione del protagonista: Daniele appare a volte un indovino o un sapiente (4,5; 5,12), a volte come un amministratore regio, cioè un uomo politico (2,48); a volte come un giovinetto anonimo (13,45), a volte come sacerdote (14,2 LXX). Quindi si tratta di tradizioni diverse, risalenti a epoche diverse o a diversi stadi di redazione, che hanno ricevuto la forma definitiva nel II sec. a.C., frutto dell’opera non di un solo autore.
Il messaggio teologico è soprattutto di consolazione, come già accennato all’inizio. Di fronte alla persecuzione religiosa, al dilagare dell’ellenismo (è questo il periodo storico che fa da sfondo alla redazione) e alla minaccia dell’apostasia, come si deve comportare il pio israelita? E quale sarà la risposta di Dio alle malvagità dei persecutori e alle sofferenze dei suoi fedeli? Il libro vuole rispondere a queste domande.
Ci sono due tematiche di particolare importanza, soprattutto per la risonanza che avranno nel NT: la figura del «figlio di uomo» e l’annunzio della risurrezione finale (si ricordi anche la dottrina degli angeli: nel libro incontriamo Gabriele – che sarà ripreso nel vangelo di Luca – e Michele che ritroveremo nell’Apocalisse).
Il vertice di tutto il libro è il cap. 7, a causa della presenza di quel misterioso «Figlio dell’Uomo», forse simbolo dell’Israele fedele glorificato da Dio, ma interpretato dalla tradizione giudaica come la persona del futuro Messia e dai cristiani applicato a Gesù Cristo. La visione si sviluppa intorno a tre soggetti: le quattro bestie mostruose uscite dal mare in tempesta (vv. 4-8), il Vegliardo seduto sul trono, giudice delle quattro bestie (vv. 9-12), il misterioso Figlio dell’Uomo condotto davanti al Vegliardo per ricevere un potere eterno (vv. 13-14). L’interpretazione che Daniele ne riceve vuole essere una grandiosa allegoria della storia. Le quattro bestie simboleggiano il succedersi dei regni e dei giochi politici (ricordiamo che il «corno» è segno di potenza e quel corno finale che combatte gli altri probabilmente incarna il re Antioco IV Epifane, il grande oppressore e persecutore degli ebrei durante l’epoca maccabaica). In contrasto con la visione dei regni «bestiali» si erge il regno dei cieli da cui il Vegliardo, cioè l’Eterno, Dio, lancia il suo verdetto di giudizio sull’orgoglio delle superpotenze. Sulle ceneri degli imperi egli edifica un nuovo regno il cui governo egli affida alla misteriosa persona detta «Figlio dell’Uomo», accostato a Dio stesso. Come già detto, in questo personaggio che attua la lotta tra il Bene e il Male in modo definitivo (vv. 13-14), la lettura tradizionale ha intravisto la figura del Messia instauratore del regno eterno dei giusti e dei santi (vv. 26-27).
Nel vangelo Gesù usa di frequente l’espressione «figlio dell’uomo», applicata a se stesso (pare che storicamente sia questo il titolo da lui preferito); con ciò vuole indicare la sua natura di uomo vero, collegata in primo luogo alla sofferenza (cf. Mc 8,31); ma nello stesso tempo – proprio con lo sfondo della visione di Daniele – vuole alludere alla sua natura divina e alla sua manifestazione come giudice universale. A Caifa che lo interroga durante il processo Gesù risponderà: «D’ora innanzi vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,24 da confrontare con Dan 7,13).
«Dobbiamo perciò concludere che, nell’uso che ne fa Gesù, l’espressione “figlio dell’uomo”, con la quale ama definirsi, vuole indicare contemporaneamente la debolezza della sua natura umana che, essendo nascosta nel tempo della sua vita terrena, è destinata a rivelarsi con potenza alla fine dei tempi» ( 3 ).
( 1 ) Per questi appunti cf. RAVASI, Introduzione all’Antico Testamento, Piemme, Casale Monferrato 1991 (Manuali di base Piemme 2), pp. 124-128; introduzione a Daniele di V. CUFFARO in La Bibbia Piemme, Casale Monferrato 1995, pp. 2046-2050.
( 2 ) La Bibbia Piemme, p. 2046.
( 3 ) Ibidem, p. 2049.
IL PROFETA DEL GIUDIZIO E DELLA SPERANZA
25.a lezione
Ezechiele ( 1 ) è un poeta barocco e surreale, creatore di immagini fantasmagoriche. Sono molte le scene che riesce ad evocare con suggestioni ed emozioni sorprendenti. Ne elenchiamo schematicamente alcune: i capp. 4-5 sull’imminente assedio di Gerusalemme; il cap. 12 sulla deportazione in esilio; il cap. 16, con la storia di Israele «trovatella», salvata e sposata dal Signore; il cap. 17 con l’enigma delle due aquile, del cedro e della vite; il cap. 21 con la raffigurazione della foresta in fiamma, simbolo della distruzione di Gerusalemme, e con il terribile canto della spada che Dio stesso mette in mano a Nabucodonosor; il cap. 23 (che riprende il cap. 16 e lo applica alle due «sorelle»: Samaria e Gerusalemme); il cap. 33 con il profeta che si rappresenta come sentinella; il cap. 34 con un’immagine tipica della Bibbia, quella del pastore (Ezechiele profetizza contro i falsi pastori d’Israele); il cap. 37 con la visione delle ossa aride. Su alcune ci fermeremo più dettagliatamente.
L’avventura di questo profeta (Ezechiele significa «Dio mi renda forte») di famiglia sacerdotale, amante dei colori accesi e delle visioni surreali, inizia nel 597 quando nella prima deportazione viene condotto a Babilonia. E lì, lungo il canale Chebàr, verso il 593-92, con una visione maestosa il Signore lo costituisce profeta dei deportati (cap. 1: il «carro di JHWH», allusione alla «mobilità» spirituale di Jahvèh che non è legato al tempio di Gerusalemme, ma può seguire i suoi fedeli anche nel loro esilio!). Il racconto è solenne e di difficile decifrazione. C’è la raffigurazione di un carro con quattro esseri viventi che hanno quattro volti (uomo, toro, leone, aquila); la tradizione posteriore cristiana li ha applicati ai quattro evangelisti (ma è solo una lettura popolare). Probabilmente il profeta prende lo spunto dai karibu, le grandi statue mostruose babilonesi, poste a custodia delle aree sacre, per indicare l’assoluta trascendenza di Dio e la sua presenza in tutti e quattro i punti cardinali. Ricordiamo che la visione viene ripresa nell’Apocalisse di Giovanni (4,6-8); ed Ezechiele è il libro dell’AT più citato in Ap. Un altro modo per narrare la sua vocazione il profeta lo esprime nei capp. 2-3, con la visione del libro, da «mangiare» (è sempre in gioco la bocca del profeta) e da «digerire»…
Nella predicazione di Ezechiele come nella sua opera letteraria la linea di demarcazione è data dalla distruzione di Gerusalemme del 586. Dividiamo quindi il libro in due parti (prima e dopo la fine della nazione).
EZECHIELE PROFETA DEL GIUDIZIO
Alla prima parte appartengono i capp. 1-24 del libro, dominati dal tema del giudizio e orientati a cancellare ogni illusione negli ebrei, sia rimasti in patria che già deportati.
Nei capp. 4-5 sono narrate alcune azioni simboliche (di grande potenza evocativa pur nella loro stranezza!) con cui il profeta deve sceneggiare il futuro assedio di Gerusalemme: egli deve disegnare su un tavoletta d’argilla Gerusalemme e poi fare l’assedio (!) a questa tavoletta con una tattica militare accuratamente rappresentata (torri di legno, terrapieni, arieti e una teglia di ferro); quindi deve stare immobile per più giorni, giacendo prima sul fianco sinistro poi sul fianco destro, fissando lo sguardo contro Gerusalemme e tenendo il braccio disteso (lo sguardo fisso e la teglia come muro di ferro raffigurano l’implacabile durezza degli assalitori); in quei giorni dovrà avere un cibo misero e razionato; quindi si rade capelli e barba in segno di umiliazione e procede a una divisione simbolica dei peli per indicare il triplice destino degli abitanti (un terzo morirà nell’incendio, un terzo nella fuga, il resto sarà disperso nella deportazione); alcuni pochi peli, racchiusi nel lembo della veste, cioè diligentemente conservati, indicano che tra gli scampati alcuni saranno protetti da Dio in modo particolare. Un’altra azione simbolica sulla deportazione del re e dei cittadini viene narrata nel cap. 12 (la breccia nel muro, il bagaglio dell’emigrante sulle spalle).
La dolorosa ma inappellabile rovina della nazione è causata dai delitti contro Dio con l’idolatria e contro il prossimo con le ingiustizie, che il profeta stigmatizza in pagine e pagine. Si noti soprattutto la lunga allegoria, in cui Ezechiele presenta Israele come sposa infedele di Jahvèh e prostituita agli dei stranieri (immagine corrente dopo Osea): è il lungo cap. 16 (ripreso poi nel cap. 20, 22 e 23: qui sotto l’immagine delle due sorelle c’è la storia parallela di Samaria e Gerusalemme, cioè i due regni). La descrizione (ampollosa e ridondante, ma potente) termina nei vv. 60-63 come in Osea con il perdono gratuito dello sposo che stabilisce una nuova alleanza.
Il cap. 17 è un «indovinello sapienziale», una specie di rebus: si parla di due aquile, del cedro, della vite. Si allude a Nabucodonosor (aquila) che strappa da Giuda (cedro) il re Ioachin (ramo più alto) e lo porta in esilio a Babilonia, sostituendolo con Sedecia (la vite bassa che deve dare frutti per Nabucodonosor); ma questi si volge ad un’altra aquila (l’Egitto) da cui spera la liberazione dal giogo babilonese. La parabola termina con la spiegazione che la vite infedele sarà divelta e bruciata dalla grande aquila.
Il canto della spada del cap. 21 (letterariamente un capolavoro: in ebraico c’è tutto un gioco di suoni) vuole essere un messaggio di giudizio spietato: Nabucodonosor è come il sicario di Dio che massacra tutto. Ricordiamo che il tema è presente già in Isaia (Assiria «verga del furore di Dio»: Is 10,5) e in Geremia (Babilonia «martello di Dio»: Ger 51,20).
EZECHIELE PROFETA DELLA SPERANZA
Giunta la fine di Gerusalemme, che coincide con la morte della moglie («Figlio dell’uomo, ecco, io ti tolgo all’improvviso colei che è la delizia dei tuoi occhi: ma tu non fare il lamento, non piangere… La mattina avevo parlato al popolo e la sera mia moglie morì»: 24,15-18), Ezechiele resta muto per mezzo anno (in altre occasioni si era persino paralizzato). Poi la sua profezia subisce una svolta radicale e diventa un canto della speranza. Ciò appare da molte parti nei capp. 33-39 e soprattutto capp. 40-48 (i capp. 25-32 sono una raccolta a parte di oracoli su sette nazioni diverse, come Amos e Isaia).
Già nel cap. 34 (il canto dei falsi e del buon pastore), seppure di giudizio, comincia ad apparire la speranza: c’è il giudizio severo contro i cattivi pastori (i re, i principi, i sacerdoti, i capi del popolo), e c’è la speranza per il gregge che verrà amato e guidato direttamente da Dio. E il Signore si servirà di un principe, che non sarà più un discendente di Davide: questa figura assume i contorni trasfigurati del messia.
Nel cap. 36 si riprende il tema della «nuova alleanza» (già elaborato in Ger 31,31-34): lo Spirito di Dio viene nuovamente immesso nel cuore dell’uomo; il cuore di pietra bloccato dall’egoismo e dal peccato viene mutato in un cuore nuovo che ricerchi la verità e la giustizia; l’acqua, simbolo di purificazione e di vita, libererà l’uomo da ogni impurità e lo renderà fecondo di opere giuste (vedi soprattutto 36,24-28: brano molto conosciuto: «Vi darò un cuore nuovo…»).
Classica è divenuta poi la grandiosa scena del cap. 37. Su una valle lastricata di ossa calcificate passa lo Spirito fecondatore e creatore di Dio; e su quegli scheletri aridi si intesse la carne, i nervi, la pelle: risorge un popolo nuovo, vivo, pronto per la salvezza. Attenzione! La visione per sé non si riferisce alla risurrezione dei morti: Dio annunzia la restaurazione messianica di Israele dopo le sofferenze dell’esilio. Ma per il simbolo utilizzato orientava in qualche modo all’idea di una risurrezione individuale, che sarà esplicitamente affermata solo più tardi (in Daniele 12,2 e 2 Maccabei 7,9-14.23-36; 12,43-46).
I capp. 40-48 tratteggiano poi la terra e la comunità della speranza. Ezechiele traccia proprio la mappa di questa terra del futuro: il tempio (capp. 40-43), il culto (43-46), Gerusalemme risorta (47-48). Una realtà domina su tutto, quella realtà che l’orientale desidera con tutte le sue forze; l’acqua che è il tema dell’intero cap. 47; essa permea la terra, la invade, fa sbocciare la vegetazione, penetra addirittura nelle acque salate e velenose del mar Morto e le risana. Ma questo canto dell’acqua acquista una valore religioso altissimo: essa infatti scaturisce dalla soglia del tempio (47,1), «sono acque che sgorgano dal santuario» (47,12). L’uomo assetato e pellegrino sa allora che con queste acque viene liberato da un’altra sete: è il Signore «fonte d’acqua viva, non cisterna screpolata» (Ger 2,13) che offre le «acque vive che sgorgano a Gerusalemme» (Zac 14,8).
___________________________
( 1 ) Per questi appunti cf. RAVASI, pp. 93-97.
Don Lorenzo Sena
IL TORMENTO E IL DRAMMA DI UN PROFETA
Lezione 24.a
Il declino di Gerusalemme, il suo crollo e l’esilio babilonese hanno come testimoni due profeti di straordinaria potenza poetica e spirituale: Geremia ed Ezechiele. Il primo di essi lo sarà in presa diretta, con un coinvolgimento totale e drammatico.
LA MISSIONE DEL PROFETA
Geremia (1) era nato intorno al 650 a.C., nel villaggio di Anatot a 6 km a nord-est di Gerusalemme ed era stato chiamato in giovane età, come è spiegato in 1,4-19. Già il racconto della sua vocazione fa vedere in sintesi il dramma della missione a cui il Signore lo ha chiamato e che egli cerca di evitare (si veda il parallelo con la vocazione di Mosè).
Tutta la vicenda del profeta è documentata in una specie di diario intimo disperso qua e là nei capp. 10-20 e che la tradizione ha definito le «Confessioni» di Geremia: 11,18-12,6; 15,10-21; 17,14-18; 18,18-23; 20,7-18. Ma anche il fedele segretario Baruc, a cui si devono molte pagine biografiche su Geremia distribuite nel libro, ha registrato a più riprese la lunga catena di sofferenze del suo maestro (capp. 26-29; 36; 37-38). Circondato da odio, perseguitato, maledetto, percosso, torturato, scomunicato dal tempio, solitario a causa del celibato impostogli da Dio (16,1-3; cf. anche 15,17: «costretto dalla tua mano, sedevo solitario»), timido eppure costretto a contestare politici e sacerdoti, Geremia sente la sua vocazione come un peso insopportabile, un segno di contraddizione, una maledizione. Il testo più famoso di questo dramma interiore è l’’ultima delle «confessioni» (Ger 20,7-18). Con una metafora audace il profeta evoca l’ora decisiva della sua vocazione: «Mi hai sedotto, Jahveh…» (il verbo ebraico usato significa anche violentare una donna!); il Signore lo ha attratto quasi imbrogliandolo come si seduce un inesperto con false promesse; rasentando la bestemmia, Geremia accusa Dio di viltà e di inganno. Il ministero profetico gli ha portato solo «obbrobrio e scherno» (v. 88). La tentazione di rinunziare è fortissima: «Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!». Ma la parola di Dio è come un incendio che pervade le ossa e che l’uomo non può placare e spegnere (v. 9); il grido diventa allora disperato e la maledizione si indirizza contro il giorno della sua nascita, nel desiderio di non essere mai esistito, attraverso l’immagine violentissima del grembo materno trasformato in una bara: 20,14-18 [terribile!].
FEDE E SPERANZA IN GEREMIA
Geremia è stato uno dei sostenitori della riforma religiosa del pio re Giosia. La necessità di una spiritualità genuina fondata sul rapporto tra fede e vita (come già avevano insegnato i profeti precedenti) emerge in modo nitido: è necessaria la «circoncisione del cuore» (4,4; 9,25). Il passo più importante su questo tema è il cap. 7 che contiene un attacco contro il tempio: Geremia si mette sulla porta e si rivolge a coloro che stanno entrando e critica la fiducia magica nel tempio, quasi che esso possa assicurare automaticamente la salvezza prescindendo dalla fede e dalla vita. La presenza di Dio nel tempio è condizionata dalla risposta umana nella giustizia e nella fedeltà, nella difesa dell’orfano e della vedova: veramente il tempio è diventato una tana di rifugio per peccatori («una spelonca di ladri»: v. 11, che sarà citato da Gesù nella cacciata dei venditori dal tempio: Mt 21,13). Il profeta annuncia perciò la rovina del tempio; si profila ormai lo spettro della distruzione della città e della nazione intera.
Dopo la svolta del 586 inizia una nuova fase della predicazione di Geremia; alla disperazione, ormai imperante in tutto e in tutti, egli oppone nel nome del Signore la proclamazione della speranza, in pagine bellissime, soprattutto dei capp. 30-31 (il cosiddetto «libro della consolazione»): «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata…» (31,3-4; ma si legga tutto il capitolo). Geremia propone il superamento dell’antico patto sinaitico per una «nuova alleanza» con il Signore: «Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele: porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo» (31,33). Questo oracolo (che ritroviamo poi in Ezechiele) è uno dei vertici dell’AT e sarà ripreso da Gesù nell’ultima Cena (Lc 22,19-20) e citato integralmente nella lettera agli Ebrei (8,8-12).
GEREMIA E IL SUO LIBRO
Il piano attuale del libro di Geremia può essere così delineato:
– capp. 1,1-25,14: oracoli per Gerusalemme e per Giuda;
– capp. 25,16-38 e capp. 46-51: oracoli per le nazioni;
– capp. 26-35: oracoli positivi per Israele e Giuda;
– capp. 36-45: narrazioni di Baruc sulle vicende personali del grande profeta.
In questi testi ci sono più generi letterari e più mani (inserzioni redazionali successive, oltre le narrazioni biografiche del fedele Baruc), ma domina la presenza di Geremia con i suoi oracoli personali in poesia, brevi e vigorosi, e con le pagine potenti delle sue «confessioni». All’interno di questi brani si delinea la storia di quegli anni, con le ore cruciali della fine di Giuda. Distrutta Gerusalemme nel 586, come aveva previsto il profeta, Geremia proclama la speranza e la futura restaurazione. Restato nella madrepatria per decisione degli invasori, egli vivrà le ore oscure dell’assassinio del governatore Godolia; e quando i congiurati riparano in Egitto, trascinano in questo anti-esodo il profeta, contrario a tale scelta che il silenzio di Dio gli mostra come assurda (cap. 44). Il profeta scompare nella storia, ma resterà nella memoria di Israele come una figura dai contorni quasi messianici e nella tradizione cristiana come immagine del Cristo sofferente e obbediente alla missione che il Padre gli ha affidato.
LAMENTAZIONI E BARUC (2)
Nella Bibbia cattolica subito dopo il libro di Geremia c’è il libro delle Lamentazioni, che per gli Ebrei fa parte dei Ketubîm, all’interno dei Meghillôt, (i cinque «rotoli» da leggersi in altrettante feste ebraiche). È una raccolta di canti funebri e canti di dolore, attribuiti a Geremia, il grande profeta testimone della distruzione di Gerusalemme. In realtà sono stati composti in quegli anni della distruzione del tempio da uno o più autori, però sembra da escludere la paternità del profeta. Si tratta di cinque poemetti, di cui i primi quattro sono alfabetici (cominciando ogni strofa con una delle lettere dell’alfabeto) e il quinto ha proprio 22 versi, il numero delle lettere dell’alfabeto. Non hanno un unico genere letterario: le lamentazioni 1,2 e 4 sono un lamento funebre; la 3 è un lamento individuale; la 5, la più breve, è una preghiera collettiva, una supplica densissima (chiamata nella Bibbia latina «Orazione di Geremia»).
Scritte dunque a Gerusalemme, le Lamentazioni sono la testimonianza più viva e sofferta della fine di Giuda e dei suoi abitanti; ma da questi lamenti addolorati scaturisce un sentimento di fiducia invincibile in Dio e di pentimento profondo (ecco l’attualità perenne del libro). Gli Ebrei leggono le Lamentazioni nel grande digiuno commemorativo della distruzione del tempio, il 9 del mese [= luglio-agosto]. La Chiesa ne fa uso durante la settimana santa, per esprimere il dramma del Calvario.
Il libro di Baruc (deuterocanonico, non accettato dagli Ebrei), è un’antologia posta sotto lo pseudonimo del fedele segretario di Geremia. In realtà è una composizione molto più tardiva (II sec. a.C.); dopo un prologo storico (1,1-14), ci offre una solenne liturgia penitenziale (1,15-3,8), un inno sapienziale (3,9-4,4), un’omelia profetica (4,5-5,9) e – solo nella versione latina – una requisitoria anti-idolatrica, nota come «Lettera di Geremia» (cap. 6).
Don Lorenzo Sena
NOTE: (1) Per questi appunti cf. G. RAVASI, Introduzione all’Antico Testamento, Piemme, Casale Monferrato 1991 (Manuali di base Piemme 2), pp. 87-95.
(2) Per questi appunti cf. RAVASI, p. 128; introduzioni in La Bibbia di Gerusalemme; E. BIANCHI, Lontano da chi? Lontano da dove? Commento al Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Qohelet, Ester, Gribaudi, Torino 19843
Lezione 23.a
b) Il DEUTERO – ISAIA (capp. 40-55)
«Libro della consolazione di Israele»: tale è il titolo che si dà a questa seconda parte di Isaia, prendendo lo spunto dalle prime parole: «Consolate, consolate il mio popolo» (40,1). Il profeta anonimo annuncia che l’espiazione è finita («Ha ricevuto doppio castigo per i suoi peccati»: 40,2), inizia il dono della liberazione, il ritorno in patria è, sì, attraverso il deserto, ma come un cammino trionfale sotto la guida del Signore; è una «via sacra», totalmente pianeggiante e rettilinea. Il compito del profeta è proprio quello di stimolare gli ebrei al ritorno nella terra dei padri (perché molti si erano ben insediati nel luogo dell’esilio fino a costituire comunità con banche, centri di studio, commerci). L’intervento di Dio è tratteggiato dal profeta come un «secondo esodo», riattualizzazione del primo dalla schiavitù dell’Egitto; e difatti abbondano i simboli esodici: le catene infrante, il canto della libertà, il mare che distrugge il male dell’oppressione, il deserto con la marcia verso la terra (41,8-16; 43,14-21; 49,8-26; 51,9-10).
In questa parte di Isaia sono numerosi i testi sulla predilezione di JHWH per il suo popolo, con immagini piene di tenerezza che ricordano Osea e saranno riprese ancora da Geremia ed Ezechiele. JHWH è come un padre per Israele (cf. Is 1,2) per cui Giacobbe non deve temere nulla: «Ma tu, Israele, mio servo, tu, Giacobbe, che ho scelto… non temere perché io sono con te… tuo redentore è il Santo d’Israele…» (Is 41,8-20); «Non temere, perché ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni… Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo…» (43,1-7). Anzi il Signore ha viscere materne: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco ti ho disegnato sulle palme delle mie mani…» (49,15-16). Il Signore è poi lo sposo di Israele: «Poiché tuo sposo è il tuo creatore… come una donna abbandonata e con l’animo afflitto ti ha il Signore richiamata… Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore… anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto…» (54,1-10; si pensi a Osea). Sono testi da leggere e meditare con calma nella preghiera contemplativa! Si veda anche il conclusivo cap. 55 con l’invito a partecipare ai beni della nuova alleanza («O voi tutti, assetati, venite all’acqua») e con la personificazione della Parola di Dio che è efficace di per se stessa («Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo… ecc.»: 55,10-11).
In questi capitoli del Secondo Isaia appare una figura messianica nuova, che sostituisce l’immagine messianica regale dopo il crollo della monarchia davidica del 586 a.C. Il volto di questo personaggio messianico dai lineamenti profetici viene tratteggiato in quattro carmi divenuti celebri sotto il titolo di «Canti del Servo di JHWH», titolo onorifico con cui viene esaltata questa figura messianica.
– Nel primo canto (Is 42,1-4) il Servo è investito ufficialmente della sua missione di annunziare la Torah all’umanità intera. Il metodo è nuovo: egli riutilizza la canna incrinata e non la getta via, non spegne la lucerna in via di estinzione, ma le aggiunge olio perché risplenda nuovamente. Un annunzio quindi di grazia e di speranza.
– Nel secondo canto (49,1-6) il Servo parla in prima persona, presentando la sua missione che è una chiamata per la Parola, che è spada e freccia. La protezione di Dio («Mi ha nascosto all’ombra della sua mano») cancella ogni perplessità ed egli può annunziare la salvezza fino all’estremità della terra.
– Il terzo canto (50,4-9) rivela un nuovo aspetto del Servo: egli è un sofferente, percosso sulla schiena, disprezzato in modo aggressivo (sputi e strappo della barba). Eppure egli va incontro coscientemente a queste conseguenze del suo ministero, certo della vittoria per la vicinanza di Dio.
– Il quarto canto (52,13-53,12), il più lungo e il più famoso, si sviluppa sulla trama di eventi tragici vissuti dal Servo. Egli è un uomo sfigurato e disprezzato perché il suo tormento è visto come un castigo da parte di Dio. Ma in realtà sono gli spettatori che devono confessare il loro peccato caduto su di lui; il castigo sarebbe nostro, il dolore è diventato suo; la sua sofferenza espiatrice ha liberato gli uomini, la passione del Servo è come un sacrificio espiatorio, cui egli si è offerto in una donazione totale e docile come l’agnello sacrificale. Ma il suo dolore costituisce una giustificazione e riconciliazione del popolo con Dio. Questa trama di umiliazione e di esaltazione per i cristiani ha avuto un nome preciso, il Cristo e la sua passione, morte e glorificazione. Gli evangelisti hanno infatti applicato il quarto carme del Servo agli eventi finali della vita terrena del Cristo e al valore salvifico della sua pasqua di morte e risurrezione. (Si noti la bellezza della liturgia cristiana che ci fa leggere i primi tre canti del Servo il lunedì, martedì e mercoledì della settimana santa e il quarto canto il venerdì santo).
C) IL TRITO-ISAIA (capp. 56-66)
Anche questa parte del libro di Isaia è ambientata nel clima di ritorno dall’esilio e della ricostruzione di Sion, cantata con passione nei capp. 60, 62 e 66; si cerca anche di aprire l’orizzonte ai popoli della terra (una dimensione più marcatamente universalistica). Si notino in questa sezione: il cap. 58 sul vero digiuno (che la liturgia cristiana ci fa leggere in quaresima); l’inno a Sion rivestita di luce nel cap. 60 (applicato alla liturgia dell’Epifania); il famoso brano sulla vocazione del profeta in 61,1-3 («Lo spirito del Signore Dio è su di me…») che Gesù applicherà a sé stesso nella sinagoga di Nazaret (Luca 4,18-19).
Don Lorenzo Sena
Lezione 22.a
Dopo aver trattato del profetismo in genere e della importanza assolutamente unica di questi uomini di Dio che sono i profeti, cercheremo di conoscere – almeno nelle grandi linee – i singoli libri, iniziando dai «profeti maggiori» ( 1 ), cioè Isaia, Geremia ed Ezechiele.
Essi svolgono la loro attività in periodi cruciali per l’esistenza politica del piccolo regno ebraico: Isaia (740-701 circa a.C.) durante l’avanzata dell’impero assiro; Geremia (627-585 a.C.) quando il neo impero babilonese distruggerà Gerusalemme e deporterà la popolazione; Ezechiele (597-538 a.C.) durante l’esilio a Babilonia. Tutti proclamano, con modalità diverse, lo stesso messaggio: aver fede, cioè fondare la propria esistenza su JHWH e sul suo progetto di pace e saper sperare nella sua presenza di «Dio-con-noi» (Isaia); egli è capace di rinnovare il cuore dell’uomo in profondità con una «nuova alleanza» di perdono gratuito (Geremia); anche se l’esilio è un giusto castigo per l’infedeltà all’alleanza, l’azione dello Spirito del Signore ridarà ancora vita e speranza (Ezechiele).
[Il libro del profeta Daniele richiede un discorso a parte].
I cristiani si rifanno costantemente ai libri dei profeti maggiori e specialmente a Isaia e Geremia, come coloro che più direttamente hanno preparato la strada a Gesù di Nazaret, creduto e proclamato il Messia, cioè il «Dio-con-noi», il quale predica una religiosità che parte da un cuore rinnovato dal perdono di Dio.
I passi dei Profeti maggiori che bisognerebbe leggere e commentare sono tanti, e tutti molto importanti teologicamente e spiritualmente; per cui c’è solo il rammarico di non potersi fermare a sufficienza su di essi. In compenso vi ricordo però che uno dei vantaggi di questi libri è che sono molto utilizzati nella liturgia e quindi abbiamo modo di sentirli proclamare più volte nelle nostre celebrazioni; da qui la maggior possibilità di ascoltarli e meditarli. In questa sede ne citerò soltanto alcuni, come esempio della grandezza e della potenza di questi uomini grandi (veramente sono persone «a un altro livello»!), i quali, afferrati da Dio, annunciano il suo messaggio di liberazione e di salvezza.
Iniziamo dunque col grande Isaia.
Definito il «Dante della poesia ebraica», Isaia era nato a Gerusalemme e aveva ricevuto la sua vocazione all’interno del tempio nel 740 a.C. (cap. 6). L’attuale libro di Isaia, biblioteca profetica per eccellenza, è il più lungo – a parte la raccolta di preghiera dei 150 salmi – dei libri sacri, con ben 66 capitoli. Da più di un secolo la critica biblica propone di dividerlo in tre grandi parti, corrispondenti a profeti diversi:
a) capp. 1-39, risalenti al grande profeta del secolo VIII, anche se con inserzioni posteriori: è detto «Proto (o Primo)-Isaia»;
b) capp. 40-55, attribuiti a un profeta anonimo che operò in esilio a Babilonia nella seconda metà del secolo VI: è chiamato «Deutero (o Secondo)-Isaia»;
c) capp. 56-66, assegnati a un profeta anonimo del post-esilio denominato «Trito (o Terzo)-Isaia».
La presenza poi di altri testi confluiti nel rotolo di Isaia induce a ritenere che si possa parlare di «scuola isaiana» che tra l’VIII e il V-IV secolo ha contribuito in maniera diversa al formarsi dell’attuale libro (vedi anche quanto detto sulla formazione dei libri profetici nella lezione precedente).
L’insistenza è su almeno quattro grandi tematiche:
– discernere la presenza di Dio nell’oggi del popolo ebraico, sia a livello sociale, sia nella dimensione politica, sia nella sfera religiosa;
– capire come Dio sta agendo nella storia universale e la funzione che ha il popolo ebraico per l’unificazione dei popoli (dimensione universalistica della salvezza);
– proclamare che l’azione di Dio non riguarda solo il popolo ebraico o i popoli del medio Oriente, ma anche l’intera creazione: creazione e storia sono collegate da un unico progetto salvifico;
– fondare questa speranza in un’unica realtà: JHWH stesso, sperimentato sia nella sua trascendenza (egli è il «Santo»), sia nella sua immanenza che lo vede coinvolto nel mondo e nella storia (il «Santo di Israele», il «Dio con noi»).
Approfondiamo un po’ le tre grandi sezioni del libro di Isaia, per coglierne la grandezza teologica e spirituale, attraverso la citazione dei testi più significativi.
A) IL PROTO-ISAIA (capp. 1-39)
Può essere delineato secondo la seguente mappa letteraria:
– capp. 1-6: oracoli isaiani, di alto tenore letterario e teologico;
– capp. 7-12: il cosiddetto «libro dell’Emmanuele», sicuramente isaiano, anche se con inserzioni posteriori;
– capp. 13-23: oracoli contro le nazioni, isaiani;
– capp. 24-27: è la cosiddetta «apocalisse maggiore» di Isaia, certamente opera post-esilica (forse del V secolo a.C.);
– capp. 34-35: è la cosiddetta «apocalisse minore» di Isaia, opera post-esilica;
– capp. 36-39: è la libera riproduzione degli eventi narrati in 2 Re 18-20.
Le pagine di apertura (capp. 1-6) ci immergono subito nel cuore della predicazione profetica, legata al rapporto tra esistenza e fede, tra culto e giustizia (vedi Amos). Il libro di Isaia infatti comincia con due requisitorie giudiziarie (rîb) che il profeta scaglia contro Giuda per le sue violazioni agli impegni dell’alleanza. Isaia 1,10-20 è un oracolo contro il ritualismo vuoto al quale non corrisponde un sentimento interiore. Montoni, tori, agnelli, incensi, sabati, assemblee, feste sono una farsa quando queste mani grondano sangue e dietro questi pseudo-oranti si leva la voce dei poveri e degli oppressi. «Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista…». Il brano ci viene proposto nella liturgia quaresimale per esortarci a una vera conversione del cuore. (Vedi anche il brano del Terzo-Isaia, sul vero digiuno gradito a Dio: Is 58,1-12; anche questo brano molto famoso è utilizzato nella liturgia quaresimale).
Il tema della giustizia è poi materia poetica e spirituale nello stupendo canto della vigna (Is 5,1-7). Ispirandosi a una canzone di vendemmia, il profeta parla della vigna-Israele prediletta da Dio, poi rigettata per la sua incredulità. Il clima è segnato dalla delusione (per quattro volte risuona il verbo della speranza frustrata: «attendevo») del padrone della vigna nei confronti del risultato ottenuto, uva acerba e velenosa. Il tema sarà ripreso da Geremia ed Ezechiele; e Gesù poi lo trasferirà nella parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-44).
Uno dei cardini della teologia di Isaia è la città di Gerusalemme. E in Is 2,1-5 troviamo un mirabile carme di Sion (che sarà ricopiato da Michea 4,1-5 e rielaborato dal Trito-Isaia nel cap. 60). Un pellegrinaggio planetario verso il tempio, sede della Parola di Dio, fa sì che tutti i popoli si convertano alla giustizia e alla pace: «Vieni, camminiamo nella luce del Signore!».
Isaia cap. 6. La vocazione del profeta avvenuta durante una grandiosa visione nel tempio di Gerusalemme. Il famoso canto dei serafini: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria» (v. 3) è entrato nella liturgia cristiana. Di fronte alla santità e trascendenza di Dio (è uno dei temi centrali in Isaia), l’uomo vede subito la sua miseria («Ohimè! Io sono perduto…») e sente l’esigenza della purificazione (simbolo del carbone ardente). È un brano ricco di insegnamenti: santità di Dio; coscienza del peccato dell’uomo (personale e comunitario); santificazione da parte di Dio che abilita l’uomo, anche se misero e peccatore, a una particolare missione; disponibilità del profeta.
Il libro dell’Emmanuele (capp. 7-12) è certamente la sezione più celebre dell’opera isaiana, soprattutto per la sua rilettura messianica e cristologica. In 7,10-14 troviamo il famosissimo oracolo della nascita dell’Emmanuele. In un momento di crisi politica (la cosiddetta guerra siro-efraimitica nel 734 a.C.), Isaia invita il re Acaz a resistere senza appoggi esterni, fidandosi unicamente della parola di Dio: «Se non crederete, non avrete stabilità» [7,9: è usata due volte la stessa radice ‘mn, da cui deriva la parola «credere», il nostro «Amen»]; aver fede è essere stabilmente fondati in Dio. Di fronte alla incredulità e ipocrisia di Acaz, il profeta annuncia la nascita di un figlio salvatore da una madre misteriosa, una nascita straordinaria di un bambino dal nome simbolico di Emmanuele [Dio-con-noi]. Il profeta parla di un segno, che non è necessariamente un miracolo speciale, ma piuttosto una realtà normale che, letta alla luce della fede, diventa segno chiaro della presenza di Dio. Forse agli occhi del profeta si tratta del giusto re Ezechia, figlio di Acaz; ma l’orizzonte si allarga e si trascende il fatto storico immediato: «Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele». Il testo ebraico suona ha-almah [la giovane donna] e forse si allude alla giovane moglie del re; il nome del bambino Immanu-El [Dio-con-noi] è il segno chiaro della fedeltà di Dio alle sue promesse. La versione dei LXX traduce ha-almah con ê parthenos [la vergine] e così la citerà Mt 1,22 applicandolo senz’altro alla nascita verginale di Gesù.
Per rispondere alle obiezioni che potrebbero sorgere in noi, ricordiamo che la parola del profeta è «parola aperta», che viene riletta come memoriale degli impegni di Dio all’interno della comunità credente e che offre sempre nuove possibilità di attualizzazione, proiettandola in un futuro che è in mano a Dio. Quando in seguito la comunità cristiana – dopo aver sperimentato in Gesù di Nazaret morto e risorto la realizzazione delle promesse di Dio – rileggerà questo testo non avrà difficoltà a riconoscerlo come «profezia», non nel senso che Isaia abbia «pre-visto» il concepimento verginale di Gesù, ma perché il concepimento verginale di Gesù getta la luce definitiva sulla promessa isaiana. Così il «futuro» di quel testo – cioè Gesù Cristo – lo illumina e ne esprime tutto il senso.
All’avvento di questo bambino si aprirà una nuova era di luce e di gioia cantata nell’inno di 9,1-6. Ci sarà allora la liberazione dall’oppressione (v. 3), la pace (v. 4), il dono dell’Emmanuele (v. 5) con qualità sublimi: consigliere mirabile, potente come Dio, padre eterno, principe della pace messianica. Ancor più largo è l’orizzonte dell’inno del cap. 11. Dal tronco inaridito della dinastia davidica è spuntato un germoglio, un inizio gratuito di vita: è la definizione del re-Messia come re-Germoglio (così anche in Geremia e Zaccaria). L’immagine del ramoscello attira l’idea del vento; siccome rûah in ebraico indica sia il vento sia lo spirito, il vento che fa stormire la nuova fronda del tronco di Iesse è perciò lo spirito di Dio effuso sul Messia; questo spirito articola il suo influsso in tre coppie di doni: «spirito di sapienza e di intelligenza» (si riferiscono particolarmente alla pienezza umana in generale); «spirito di consiglio e di fortezza» (esaltano le qualità politiche e militari del sovrano); «spirito di conoscenza e di timore del Signore» (definiscono l’attitudine religiosa fondamentale; ricordiamo che il timor di Dio nella Bibbia indica tutto l’atteggiamento religioso, tutto il rapporto e l’esperienza di Dio nelle sue varie fasi). Poi (vv. 3-5) si insiste sulla giustizia. Nella seconda strofa (vv. 6-9) c’è un cantico del nuovo mondo e una celebrazione della pace, attraverso una simbologia animale di pacificazione. Ricordo che i due famosi oracoli messianici di Isaia 9,1-6 e 11,1-9 noi li leggiamo spesso nella liturgia di Avvento e di Natale.
Gli oracoli contro le nazioni (capp. 13-23) sono un genere nel quale si sono cimentati tutti i profeti. In Isaia se ne possono isolare quattordici di diversa qualità e finalità; è impossibile parlarne qui singolarmente; diciamo soltanto che in tutti c’è uno schema interpretativo fondamentale: cioè il profeta concepisce le potenze e i regni umani, apparentemente arbitri dei destini del mondo, come «strumenti» coi quali Dio intesse il suo piano di salvezza e di giudizio. Il peccato capitale di Israele e delle nazioni è l’orgoglio, l’illusione di essere giudici cosmici e non «strumenti» nelle mani dell’unico Signore della storia.
( 1 ) Cf. G. CAPPELLETTO-M. MILANI, In ascolto dei profeti e dei sapienti. Introduzione all’Antico Testamento. II, Ed Messaggero, Padova 1982 (Strumenti di Scienze Religiose), pp. 53-65; G. RAVASI, Introduzione all’Antico Testamento, Piemme, Casale Monferrato 1991 (Manuali di base Piemme 2), pp. 81-86 e 102-105.